Il nostro corpo ha una storia semplice e spietata: cresce, si sviluppa fino a circa 25 anni… e da lì in poi comincia a invecchiare.
È una verità un po’ cruda, lo so. Ma comprenderla cambia lo sguardo: non è una condanna, è la mappa biologica della nostra vita. Finché cresciamo, l’organismo è impegnato a costruire: ossa, muscoli, cervello, ormoni, connessioni nervose. Dopo i 25 anni circa, la fase di “costruzione” lascia spazio a una lenta e continua fase di manutenzione. E da quanto bene ce ne occupiamo, dipende la velocità con cui invecchiamo.
Per questo, quando mi chiedono: “Dopo i 40 si vede l’invecchiamento?”, la mia risposta è: biologicamente è iniziato molto prima. Ma è vero che dai 40 anni in poi l’invecchiamento diventa misurabile in modo molto interessante con gli esami di laboratorio.

Dopo i 40: il momento giusto per guardare gli esami “con altri occhi”
Tra i 40 e i 50 anni succede qualcosa che molti percepiscono istintivamente:
si recupera meno in fretta, il sonno pesa di più, la “pancetta” è più testarda, la glicemia non è più 80 ma 95–100, la pressione comincia a salire. È qui che gli esami del sangue diventano una lente preziosa per capire se stiamo invecchiando piano o veloce.
Non si tratta solo di controllare “colesterolo e glicemia”, ma di leggere il quadro in modo integrato. L’idea dell’età biologica, come accade con il modello PhenoAge, nasce proprio da qui: usare combinazioni di esami comuni (albumina, creatinina, glicemia, PCR, globuli bianchi, indici dei globuli rossi…) per stimare quanti anni ha il nostro organismo, al di là della carta d’identità.
Accanto a questo, ci sono altri indici che usano sempre i normali esami di laboratorio e che guardo con grande attenzione:
l’HOMA-IR per la resistenza insulinica, il rapporto trigliceridi/HDL e il TyG index (che combina trigliceridi e glicemia). Questi numeri, letti nel loro insieme, raccontano la storia di tre grandi protagonisti dell’invecchiamento moderno: rischio metabolico, fegato grasso (steatosi epatica) e infiammazione cronica.
Il bello (e il difficile) di saperlo prima
Perché è così importante iniziare a guardare questi segnali dopo i 40? Perché quello che a 45 anni è solo una “tendenza” – un po’ di insulino-resistenza, una PCR lievemente alta, un fegato appena brillante all’ecografia – dai 55–60 anni rischia di diventare una diagnosi vera e propria: diabete, sindrome metabolica, ipertensione strutturata, steatosi epatica marcata, eventi cardiovascolari.
La buona notizia è che, proprio in questa finestra, abbiamo ancora moltissimo margine per cambiare traiettoria. Se gli indici di età biologica, di rischio metabolico e di infiammazione ci dicono che stiamo correndo troppo, possiamo intervenire su alimentazione, orari dei pasti, sonno, stress, movimento, gestione del peso, eventualmente terapia. Non per “abbassare un numeretto”, ma per modificare davvero la biologia del nostro invecchiamento.
Se invece gli esami mostrano un’età biologica più bassa di quella anagrafica, un buon profilo metabolico e un fegato in salute, allora questi numeri diventano una conferma: lo stile di vita sta funzionando, e vale la pena continuare su quella strada, rifinendo i dettagli.

Non per spaventare, ma per scegliere
Dire che l’invecchiamento inizia dopo i 25 anni sembra una frase dura, quasi cinica. In realtà è semplicemente la storia biologica della nostra specie. Conoscerla non serve a spaventarsi, ma a fare pace con un fatto: la velocità con cui invecchiamo non è scritta solo nei geni, è influenzata profondamente dal nostro metabolismo quotidiano.
E il metabolismo quotidiano si vede proprio lì, nero su bianco, negli esami del sangue. Non sono perfetti, non sono un oracolo, ma sono una bussola. Sta a noi decidere se usarla per aggiustare la rotta, o se continuare a navigare a vista, sperando che vada bene.
La domanda allora diventa: non “se” sto invecchiando, ma “come”. E gli esami di laboratorio, letti nel loro insieme, hanno molto più da raccontarci di quanto pensiamo.